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La rapina di Natale è in agguato,spunta la stangata sui depositi bancari con l’aumento dell’imposta di bollo (+33%)

Nella legge di Stabilita’  – Il vizietto di allungare le mani allo sportello è antico, ma la prima botta secca non e’ quella di Giuliano Amato del 1992, è del 1983 – Anche se a Palazzo Chigi (come sottosegretario) c’era sempre il Dottor Sottile…



Francesco De Dominicis per “Libero“

La rapina di Natale è in agguato. Con la legge di stabilità, il Governo delle (ex) larghe intese ha messo nero su bianco l’ennesima mazzata fiscale, rendendo assai più pesante la patrimoniale in banca. Sulla carta, la stangata contenuta nella finanziaria vale 527 milioni di euro l’anno. Ma il conto finale, considerando che gli italiani non spendono più e che i «salvadanai» sono sempre più gonfi, potrebbe essere assai più pesante. E come se non bastasse, nel Partito democratico c’è chi vorrebbe far salire anche il prelievo sulle rendite finanziarie.

Quando si pensa alla patrimoniale sui conti correnti, il primo pensiero va a Giuliano Amato. E in effetti il riferimento è più che centrato: di tasse su risparmi e investimenti, il dottor Sottile è un vero intenditore. Da presidente del consiglio, nella notte tra il 9 e il 10 luglio del 1992, l’attuale giudice della Corte costituzionale (nonché ex presidente Antitrust ed ex ministro in vari dicasteri) varò la famosa «botta secca» sui depositi bancari: un prelievo tributario forzoso pari al 6 per mille sui quattrini conservati in banca dagli italiani.

Un blitz notturno rimasto nella memoria di tutti che fruttò quasi 10mila miliardi di lire alle disastrate finanze dello Stato. Per la verità, non era la prima volta che Amato si «divertiva» a picchiare con la leva fiscale sui conti correnti: nel settembre 1983, il dottor Sottile – all’epoca sottosegretario alla presidenza del consiglio dei ministri con Bettino Craxi premier da poco più di un mese – fu artefice dell’innalzamento dal 20 al 25% del la «ritenuta sugli interessi» maturati su conti e depositi.

Amato a parte, quando c’è da «fare cassa» il fisco bussa sempre in banca. Quell’aliquota maledetta ha ballato a lungo nei 30 anni successivi. Sui conti è salita fino al 27 per cento; su azioni e obbligazioni è scesa al 12,5% finché Mario Monti è arrivato a palazzo Chigi. È il dicembre 2011 e il professore della Bocconi stravolge un po’ tutto il sistema fiscale su depositi e investimenti.

Monti ha sostanzialmente scardinato l’impalcatura precedente e ha, di fatto, creato i presupposti per introdurre, nel nostro Paese, una sorta di «patrimoniale permanente». Quella patrimoniale che aumenterà di nuovo, tra poche settimane, nel silenzio assordante di chi, anche in Parlamento e specie nelle file del centro destra, si iscrive al partito «anti tasse». Ma tant’è.

Torniamo a Monti e cerchiamo di fare luce sull’origine della patrimoniale mascherata. L’ex Primo ministro mise in fila due misure. La prima, sulla carta, aveva degli elementi favorevoli: il decreto salva Italia, infatti, armonizzò l’aliquota sulle rendite al 20%. Vuol dire che sui conti correnti bancari il prelievo calò dal precedente 27%, mentre per le forme di investimento (azioni e bond) salì dal 12,5%, soglia rimasta in vigore per i soli titoli di Stato (nessuno avrebbe più comprato bot e btp, con lo spread che sarebbe salito alle stelle).

Una riforma, quella sulla tassazione delle rendite finanziarie, che servì a Monti per fare «confusione» e inserire il vero colpaccio. Stiamo parlando dell’imposta di bollo, fino a quel momento applicata in misura fissa (solo 34 euro l’anno) sia sui conti correnti sia sui depositi titoli. Da un importo fisso, dunque, si passò a un’aliquota da applicare alle somme depositate o investite, a prescindere da eventuali guadagni: 1 per mille dal primo gennaio 2012 e 1,5 per mille dal 2013.

Nel bel mezzo delle prossime vacanze di Natale, ci sarà il nuovo rincaro. Il giro di vite è previsto dalla legge di stabilità confezionata dal ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, col tacito assenso del premier, Enrico Letta. Secondo la relazione tecnica presentata al Senato, dove è ancora in discussione il testo della finanziaria, l’aumento del bollo dovrebbe assicurare un gettito aggiuntivo di oltre mezzo miliardo di euro l’anno. Tuttavia, la stangata alla fine della giostra, potrebbe essere ben più pesante. Ciò perché negli ultimi 12 mesi, le «riserve» delle famiglie e delle imprese sono cresciute di ben 64 miliardi di euro.

Quel che è certo è che nel 2014 pagheremo un bel po’ di tasse in più sui risparmi. E vale la pena osservare che il giochetto dell’imposta di bollo strutturale è decisamente peggiore della «botta secca» in stile Amato. Che prese il 6 per mille una sola volta, mentre da gennaio il salasso è pari al 2 per mille l’anno. Un salasso micidiale che colpisce, peraltro, anche i titoli di Stato, solo in parte preservati dalle misure di Monti.

Il «bollo» infatti si applica a tutti i depositi con saldo superiore a 5mila euro e non aggredisce i guadagni, ma tutto il gruzzoletto. Su 100mila euro risparmiati, a esempio, si pagherà un bollo di 200 euro da confrontare con i 34 pagati fino al 2011. E non è tutto. A questa cifra va aggiunto il prelievo sulle rendite. Prendiamo lo stesso esempio: 100mila euro investiti in obbligazioni che rendono il 3 per cento: la cedola è 3mila euro e il fisco si becca 600 euro. In tutto vuol dire: 800 euro di tasse su 3mila di ricavi.

La percentuale per lo Stato è vicina al 27 per cento. E vale la pena ricordare che i risparmi sono una parte non spesa dello stipendio già pesantemente tassato con l’irpef (imposta sul reddito delle persone fisiche). A fare bene i conti, si scopre che il livello di tassazione in Italia è sostanzialmente raddoppiato: oltre alla patrimoniale mascherata col bollo, infatti, va conteggiato l’aumento del prelievo sulle rendite. Che era al 12,5% e dal 2011 è aumentato al 20 per cento. Sui soliti 100mila euro, fino al 2011 si pagavano 375 euro di tasse sulle rendite e 34 euro di bollo: totale 410 euro, la metà degli 800 euro pagati a partire da gennaio prossimo.

Ma occhio al Partito democratico: più di un esponente dem, infatti, ha avanzato l’ipotesi di far salire ulteriormente questa aliquota. Le opzioni messe sul tavolo vanno dal 21% al 23 per cento. Quella intermedia, pari al 22%, pare riscuotere, sempre nel Pd, il maggiore consenso. Un aggravio proposto sulla base di un confronto internazionale non corretto.

Chi propone di alzare le tasse sulle rendite finanziarie, infatti, cita, a esempio, il caso della Germania dove il prelievo è al 26,3%. Ma il paragone andrebbe fatto confrontando anche il livello di tassazione dei redditi, cioè l’origine degli investimenti e dei risparmi. Con i contributi di solidarietà varati negli ultimi due anni, l’aliquota irpef più alta in Italia è arrivata al 53% senza contare addizionali regionali e comunali. Per i tedeschi, la soglia massima arriva al 45%, ma solo per super stipendi superiori a 250mila euro.

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