Il premier anti austerità spaventa Bruxelles ma fa volare l’Ungheria
Orban bersaglio di critiche per lo stile di governo autocratico. Ma la sua battaglia contro l’invadenza Ue raccoglie consensi.
«Four more years», quattro anni in più al governo, è la scritta sul cartellone che due ragazze tenevano fieramente in mano al corteo della Fidesz (Unione civica ungherese) sabato scorso a Budapest.
L’ultima manifestazione prima del voto, previsto tra tre giorni, ha radunato oltre 150mila persone arrivate nella capitale da ogni angolo del Paese a sostegno del leader di partito e premier uscente Viktor Orbàn. Tra loro anche molti giovani, convinti soprattutto dalla politica economica antieuropeista e capace di risollevare, almeno in parte, la situazione di un Paese entrato in crisi già nel 2006. «L’Ungheria deve restare ungherese», ha detto Orbàn parlando davanti alla folla e ribadendo uno dei cavalli di battaglia della sua legislatura: la difesa dell’identità nazionale di fronte a un’Ue considerata troppo invadente. Non è un caso se, nel lungo corteo che si è snodato da piazza Kossuth, sede del parlamento, fino alla grande piazza degli Eroi, a dominare fossero i tricolori a strisce bianche rosse e verdi più ancora delle magliette arancio simbolo della Fidesz.
Molte bandiere dell’Europa sventolavano invece domenica in Andrassy Utca, viale principale della città, alla manifestazione conclusiva della grande coalizione democratica formata dal partito socialista Mszp assieme a centristi, liberali e parte dei Verdi nel tentativo di battere il premier uscente. «La politica economica di Orbàn ci riporta al feudalesimo; vogliamo un Paese democratico che sia parte attiva di un’Europa moderna» ha detto, rispondendo a distanza, il candidato della sinistra Attila Mesterhazi. Ad ascoltarlo circa 50mila persone, meno della metà dei supporter del partito oggi al governo: la quasi certa rielezione del leader arancio sta in questi numeri, rappresentazione visiva del consenso che Orbàn si è conquistato. Grazie a una politica economica dichiaratamente contraria alle misure di austerity dell’Ue (sebbene dalle istituzioni europee l’Ungheria abbia ricevuto finanziamenti per 5,3 miliardi nel 2013) e al richiamo – anche nella nuova Costituzione, riformata con la sola forza della sua maggioranza e senza accordo con le opposizioni – a radici cristiane e difesa della tradizione. Così il Paese, entrato in crisi già nel 2006, oggi vede il suo Pil crescere, mentre il deficit è sceso al di sotto della soglia del 3%, consentendo l’uscita dalla procedura di infrazione per disavanzo eccessivo avviata da tempo dalla Commissione Europea. Risultato conseguito anche riversando i contributi dei fondi pensione nel bilancio dello Stato. Un trucco? Forse, ma ha funzionato. Grossi incentivi hanno attratto molte aziende straniere: Audi costruisce la A3 nello stabilimento di Györ, nel nordovest dell’Ungheria, Mercedes produce la sua nuova classe A in quello di Kecskemét, a sud est della capitale. La disoccupazione è in calo. Poi c’è l’accordo con la Russia, ufficializzato due giorni fa, per la costruzione di due nuovi reattori nella centrale nucleare di Pàks: i lavori sono affidati alla russa Rosatom, e da Putin arriva anche il prestito da 10 miliardi di euro, l’80 per cento del costo complessivo dell’ampliamento. Ecco perché, pure rispetto alla questione Crimea, il governo ungherese ha tenuto una posizione ben più soft di quella del resto d’Europa.
La campagna elettorale è stata massiccia: la Fidesz si è accaparrata subito tutti gli spazi pubblicitari riservati alla propaganda, tappezzando il Paese con manifesti che ricordavano ancora lo scandalo per corruzione che travolse nel 2006 la sinistra. A questa è rimasto poco: nella capitale è vietato attaccare cartelloni elettorali su alberi e mura pubbliche, e solo la tv di Stato può trasmettere reclàme elettorali. Martedì l’emittente privata A tv è stata multata perché nelle immagini del servizio sulla manifestazione dell’opposizione si vedevano anche i maxischermi accesi che proiettavano quelle rèclame. Anche per questo la sinistra accusa Orbàn di scarsa democrazia: il primo ministro ha varato una legge sui media restrittiva della libertà d’informazione, facendo scattare ripetuti interventi dell’Unione Europea. Ma il pericolo più grande è il possibile successo del partito antisemita Jobbik: i sondaggi lo danno in crescita con il 14%. Il rischio lo avvertono, oltre alle opposizioni, anche parte degli elettori della Fidesz, che sabato, per questo, indossavano al contrario le magliette arancio. Se il voto di domenica decreterà un loro successo sarebbe l’ennesimo segno, anche in questo Paese ai confini dell’Europa, dell’insofferenza verso le istituzioni di Bruxelles, percepite sempre più come un nemico da cui difendersi.
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