Quella di nascondere norme, leggi e scelte di governo dietro nomi inglesizzanti è ormai una prassi abituale. Si pensi alla spending review, la norma che prevede l’obbligo della riduzione della spesa per gli enti pubblici (cosa mai avvenuta); o al Jobs Act, la legge voluta a tutti i costi dal governo Renzi, che avrebbe dovuto creare centinaia di migliaia di posti di lavoro, ma che finora è servita ad eliminare il famoso art. 18 e a rendere più facili i licenziamenti per le grandi imprese (per le piccole e medie imprese, ovvero la quali totalità delle imprese italiane, non è cambiato quasi niente).
A questo modo di dire senza dire, recentemente si sono aggiunti due termini, come tutti gli altri sconosciuti alla maggior parte della gente: “Bad bank” e “Non performing loans”. Ovviamente nonostante entrambi siano ormai una realtà (c’è chi dice che potrebbero essere portati in Parlamento addirittura entro pochi giorni) solo pochi tecnici sanno di cosa si tratta. Per capire meglio cosa sta avvenendo sotto gli occhi (e dentro le tasche) degli italiani, forse è necessario fare un passo indietro nel tempo.
L’Italia sta attraversando forse la peggiore crisi a memoria d’uomo. Gli economisti sanno bene (tutti ad eccezione, forse, di quelli che sono stati incaricati di gestire il Belpaese) che, nei periodi di crisi, gli acquisti si riducono e la gente tende a mettere i propri pochi risparmi sotto il mattone. Diminuendo gli acquisti, anche le aziende, in breve, ne risentono. Soprattutto quelle di piccole e medie dimensioni. Circola poca moneta contante (sostituirla con moneta virtuale non serve a molto) e, in breve, si genera una spirale che finisce per influenzare tutti i settori della società: quello produttivo, quello economico, ma anche quello bancario: se la gente è povera, anche i mutui per l’acquisto di immobili o di altri beni calano e quelli sottoscritti nel periodo antecedente la crisi spesso finiscono “in sofferenza” a causa di interessi troppo alti.
A questo si aggiungono altre “sofferenze” per le banche. A cominciare dai ‘derivati’, quelli che la stessa Corte dei Conti ha definito una “spirale perversa”. Finito il tempo delle vacche grasse, quando banche e istituti bancari si divertivano a vendere (spesso anche al di fuori delle regole borsistiche) queste “scommesse” a enti pubblici e privati a tassi altissimi e a condizioni capestro, oggi, tra i soggetti pubblici, l’unico a poter ancora acquistare ‘derivati’ è lo Stato. Dal giugno 2008 Comuni, Province e Regioni non possono più acquistare derivati, ciò nonostante, nelle loro ‘casse’ giacciono ancora diversi miliardi di euro di contratti di questo tipo che, se venissero chiusi oggi (e la situazione delle ‘casse’ pubbliche non lascia certo ben sperare), provocherebbero perdite per centinaia e centinaia di milioni di euro (la stima a metà dello scorso anno parla di perdite per 922 milioni). A questo si aggiungono le sofferenze derivanti dal calo dei tassi di interessi e l’aumento delle tasse sui depositi imposte negli anni passati: cose che certo non hanno fatto bene ai bilanci delle banche.
La conseguenza è che, oggi, come riportato in uno studio sul sistema bancario italiano condotto dall’Associazione bancaria italiana (Abi), in collaborazione con il Cerved, le “sofferenze” delle banche italiane ammontano alla cifra spaventosa di 189 miliardi di euro, con un’incidenza sul totale dei crediti erogati a livello Paese che è doppia rispetto alla media aggregata dell’Eurozona (dati confermati anche dalla Banca d’Italia a dicembre scorso). Una situazione che peggiora con un ritmo impressionante: in pochi anni è aumentata del 400% (a dicembre 2008 la sofferenza delle banche era stimata in 43 miliardi di euro). E la situazione peggiora vertiginosamente ogni giorno che passa: basti pensare che, in un solo mese (da febbraio a marzo 2015), le sofferenze delle banche italiane sono aumentate di quasi due miliardi e mezzo di euro (da 187.300.000.000 a 189.500.000.000)!
La realtà è che le ‘casse’ delle banche sono piene di “sofferenze”, cioè di prestiti che non rendono nulla, i “non performing loans”, e di titoli inutili che comportano un rischio enorme per le stesse banche. Un rischio tanto grande che, se le banche non fossero “banche” ma semplici aziende, nessuno potrebbe concedere loro prestiti o aiuti (lo vietano gli accordi di Basilea) e molte di loro, senza gli aiuti e i prestiti ricevuti dai governi che si sono succeduti, sarebbero già fallite da tempo.
Né pare che la situazione possa migliorare nell’immediato futuro (nonostante le promesse di chi, al governo, continua a dire che l’Italia è fuori dalla crisi). Nello studio di Abi e Cerved si dice che “il flusso di nuove sofferenze delle imprese indica che questo stock non è destinato a ridursi nei prossimi mesi”. Una situazione ben chiara a società attente al mercato. Come la statunitense Goldman Sachs che, a marzo scorso, parlando dei “non performing loan”, le sofferenze delle banche italiane, ha detto eufemisticamente che è presto per dire che il peggio è passato: i rischi che pesano sulle aziende bancarie del Belpaese sono ancora molti. Le situazioni più gravi sarebbero quelle di banche come il Banco Popolare, in cui le sofferenze nette sono il 105% del “tangible equity” (un altro inglesismo), e di Banca Monte dei Paschi di Siena, in cui sono il 92 per cento. E questo nonostante le modifiche dopo l’asset quality review (ma non sarebbe più semplice chiamarlo con un nome italiano: “rafforzamento dello stato patrimoniale”?) imposto dalla Bce dopo l’ultimo “stress test” (altro inglesismo).
Una situazione che non può non pesare anche sulla Banca d’Italia che, è bene ricordarlo, non è “dell’Italia”: è una società per azioni di proprietà di banche private. A poco o a niente sono servite finora le misure proposte dalla Bce. Come ha comfermato Egon von Greyerz (Gounder e Managing Partner di Matterhorn Asset Management AG e GoldSwitzerland) le misure di quantitative easing (allentamento quantitativo) non avranno un effetto duraturo nell’economia europea. Il problema dei debiti delle banche, infatti, non è solo italiano: riguarda molte delle banche private e delle banche nazionali di molti Paesi europei. E anche negli Usa i problemi non sono molto diversi (come dimostra ciò che sta avvenendo alla Federal Reserve).
“Un crollo globale totale è ora di fronte a noi”, ha detto von Greyerz King, “tutte le banche centrali si sono intrappolate in un angolo”. E lo stato di deflazione al quale gli ultimi governi hanno condotto l’Italia non ha fato che peggiorare la situazione: “Loro hanno tassi di interesse a quota zero o negativi, stanno stampando più soldi, e stanno comprando più beni che non possono vendere e che valgono molto meno di quello che li pagano. Così ogni singola banca centrale in tutto il mondo è in bancarotta perché non potrà mai, mai ottenere, per i loro beni, il prezzo che li hanno pagati”, ha continuato von Greyerz King. Il rischio, secondo von Greyerz King, è quello di un “collasso globale totale”. Un rischio dal quale le banche (che pure questa situazione hanno creato) non sono in grado di uscire. Né pare siano capaci di farlo la Banca d’Italia o la Bce.
L’unica soluzione (ammesso che di soluzione si possa parlare) per l’Italia è fare quello che hanno fatto altri Paesi: creare una Bad bank. Ovvero una società che dovrebbe acquistare i crediti in sofferenza delle banche private. In questo modo il rischio derivante da questi titoli non peserà più sui bilanci della banche private, ma sulle spalle (e sulle tasche) dei cittadini. Che non potranno far altro che sperare che i danni non siano eccessivi, magari grazie al fatto che la Bad bank gode di un regime fiscale favorevole o grazie al fatto che è gestita da speculatori esperti (o grazie a qualche magia della fata turchina)…
Entro pochi giorni (come ha confermato il capo della segreteria tecnica del Mef, Fabrizio Pagani, a margine di un convegno Consob), anche l’Italia potrebbe salvare dal fallimento le banche i cui bilanci sono in condizioni disastrose. Non tutte le banche, però. Grazie ai soldi degli italiani, quasi certamente si salveranno quelle banche che da anni ormai continuano regolarmente ad acquistare titoli di Stato. Un sistema, quello di emettere continuamente titoli di Stato pluriennali, che secondo molti sarebbe stato suggerito agli inizi degli anni Ottanta da Monti (allora “solo” professore): sarebbe stato lui (come riportato da Italia Oggi) a suggerire di risolvere il problema del debito pubblico del Belpaese, emettendo con cadenze regolari titoli di Stato a lungo termine. Titoli che furono (e sono ancora oggi) acquistati principalmente dalle banche. Un modo di gestire la finanza pubblica che, per anni, ha permesso di far apparire i bilanci statali a posto.
Nessuno, però, ha avvertito gli italiani che, in questo modo, le banche, grazie ai titoli acquistati, acquisivano un potere enorme sullo Stato (forse anche maggiore di quello derivante dall’emissione di valuta). Un potere che oggi, in un momento di crisi economica e finanziaria senza precedenti legato a speculazioni sbagliate, le banche stanno usando per costringere lo Stato a far propri i loro titoli spazzatura, creando una Bad bank.
Sempre, naturalmente, che la Commissione europea non faccia il proprio dovere e blocchi tutto chiamando “aiuto di Stato” questo modo di favorire banche quasi sull’orlo del fallimento…
Fonte: www.lavocedinewyork.com
Tratto da: informarexresistere
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