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Chi compra il petrolio dell’Isis? La Turchia, Israele (e anche noi)

Ceyhan, Turchia, 29 nov – Nonostante siano in molti, da oltre un anno, in corrispondenza della allora inarrestabile espansione delCaliffato islamico noto come Isis, a chiedersi su quali fonti – ovviamente illegali – di finanziamento potessero contare i tagliagole, soltanto l’abbattimento del jet russo da parte dei caccia turchi, in quello che può essere considerato un vero e proprio agguato, ha reso più palese quello che molti sapevano o intuivano.

Prevedibilmente, il primo a esprimersi senza peli sulla lingua è stato il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov, parlando del “coinvolgimento della Turchia nel commercio illegale di petrolio da parte dell’Isis, che è trasportato attraverso l’area in cui l’aereo russo è stato abbattuto, e nelle infrastrutture, armi, depositi di munizioni e centri di controllo dei terroristi, pure localizzati nella stessa area”.

Un atto d’accusa molto diretto, rilanciato dall’ex Generale francese Dominique Trinquand, secondo il quale “la Turchia non sta combattendo l’Isis oppure lo fa molto poco, e non contrasta diversi tipi di contrabbando che avvengono ai suoi confini, come petrolio, fosfati, cotone e perfino persone”.

Concentrandoci sul petrolio, che l’Isis esporta, o forse esportava, al ritmo di circa 45mila barili al giorno, per un controvalore a prezzi di mercato di circa 1,8 milioni di dollari (oltre 50 milioni al mese, circa 600 milioni all’anno), ovviamente quasi tutti in conto utili dato che i campi di estrazione sono stati tutti occupati mentre erano già stati sviluppati.

Messo in maniera semplice, il problema è che il commercio illegale di questo petrolio, per poter esistere, deve prevedere almeno una linea di trasporto sicura, un porto di imbarco, navi che lo trasportino e anche una sorta di pulizia legale che metta al riparo gli acquirenti dall’accusa di ricettazione.

Premesso che la verità in questi casi di traffici illeciti non sarà probabilmente mai definitiva, tanto più quanto più grande e scottante è il traffico stesso, il quadro che si va dipingendo è tra i più allucinanti che si potesse immaginare, superando per infamia perfino lo scellerato saccheggio della Siria già illustrato su queste colonne.

Molto in sintesi, la ricostruzione che emerge è la seguente: i convogli di camion carichi di petrolio partono dal territorio controllato dall’Isis, passano direttamente in Turchia fino a raggiungere il grande porto turco di Ceyhan sul Mediterraneo, dove il greggio dei tagliagole si confonde tra gli altri con quello pure illegale dei Curdi e viene caricato da almeno tre compiacenti compagnie di trasporto marittimo, con navi in parte battenti bandiera maltese, fino a raggiungere prevalentemente il porto israeliano di Ashkelon. Da notare che Israele soddisfa fino al 75% del proprio fabbisogno petrolifero per mezzo del greggio curdo.


Ricostruzione del percorso del petrolio dell’Isis da parte del giornale qatariota al-Araby, basato a Londra: da Raqqa, capitale del Califfato, fino in Israele

Qui, in Israele appunto, l’oro nero viene solo in parte raffinato ma soprattutto riceve una patente di legalità, quindi prende la via dell’Europa, tra cui spiccano alcune raffinerie italiane.

Partendo dalla fine,secondo il giornale Al-Araby al-Jadeed, di proprietà di un gruppo mediatico del Qatar, che cita un anonimo “dirigente europeo presso una compagnia petrolifera internazionale che ha incontrato al-Araby in una capitale del Golfo”, in Israele “il petrolio viene raffinato solo una o due volte, perché non possiede raffinerie avanzate”, dopo di che viene “esportato a paesi del Mediterraneo, dove assume uno stato di semi-legittimità, per un prezzo tra 30 e 35 dollari al barile” (inferiore, quindi, rispetto al prezzo di mercato che sta tra 40 e 45 dollari).

“Il petrolio – sempre secondo il giornale arabo – è venduto entro un paio di giorni a un certo numero di compagnie provate, mentre la maggior parte va a una raffineria italiana posseduta da uno dei più grandi azionisti di un club calcistico italiano, dove il petrolio è [ulteriormente] raffinato e usato localmente”.

Il nome del magnate petrolifero italiano è omesso, ma i dettagli sopra esposti – sulla cui veridicità non è possibile esprimersi – ne consentiranno una facilissima identificazione.

Sempre secondo l’anonima gola profonda che ha rivelato questa storia incredibile al quotidiano londinese, “Israele è diventato in un modo o nell’altro il principale agente di mercato del petrolio dell’Isis. Senza di loro [gli israeliani, ndr], la maggior parte del greggio estratto dall’Isis sarebbe rimasto tra Iraq, Siria e Turchia. Nemmeno le tre compagnie di trasporto marittimo avrebbero ricevuto il petrolio se non avessero avuto un compratore in Israele”.

Secondo questo personaggio, la maggior parte dei paesi evitano di trattare questo tipo di petrolio di contrabbando, a causa delle implicazioni legali e della guerra contro lo Stato islamico. Per fortuna – si fa per dire – Turchia e Israele, e alla fine perfino l’Italia, darebbero una mano decisiva a imbastire il traffico, secondo queste rivelazioni.

Tornando alla prima fase del business criminale, la soluzione del trasporto dai campi di estrazione occupati dall’Isis fin dalla primavera 2014 fino al porto turco di Ceyhan appare ormai consolidata, come riportato da un rigoroso studio scientifico dell’Università britannica di Greenwich, in cui sono evidenziate perfino le relazioni tra i prezzi del trasporto marittimo e le conquiste dei campi petroliferi da parte del Califfato.

Chi sono allora gli intermediari e facilitatori di un tale criminale meccanismo?

È a questo punto che emergerebbe il coinvolgimento diretto della famiglia del presidente turco Erdogan e in particolare, ma non solo, di suo figlio Bilal.

Necmettin Bilal Erdogan, nato il 23 aprile 1980, è il terzo figlio di Recep Tayyip Erdogan, attualmente presidente della Turchia.

Dopo gli studi compiuti in Turchia, nel 1999 questi si sposta negli Usa, dove ottiene nel 2004 anche un master dalla John F. Kennedy School of Government alla Harvard University. Dopo di che, ha lavorato alla Banca Mondiale fino a tornare in patria nel 2006 per avviare il proprio business.

Oggi, Bilal Erdogan è uno dei tre proprietari, in ugual misura, della compagnia di traporto marittimo “BMZ Group Denizcilik”, oltre che di altre simili imprese.

In una intervista concessa al New Eastern Outlook, ancora lo scorso agosto, Gürsel Tekin, vice-presidente del Partito Repubblicano della Turchia (CHP), all’opposizione, dichiarava che “il Presidente Erdogan sostiene che secondo le convenzioni sul trasporto internazionale non sussiste alcuna infrazione legale connessa all’attività di suo figlio Bilal, e che questi sta conducendo un business normale con le compagnie marittime registrate in Giappone, ma in effetti Bilal Erdogan è immerso fino al collo nella complicità col terrorismo. Tuttavia, finché suo padre sarà in carica, egli rimane immune da qualsiasi procedimento giudiziario”.

Lo stesso esponente politico turco, Tekin, aggiunge poi che la compagnia marittima BMZ di Bilal Erdogan, che effettua i trasporti per conto dell’Isis, è “un affare di famiglia e i parenti stretti del presidente Erdogan posseggono quote nella BMZ, inoltre i medesimi hanno distratto fondi pubblici e ottenuto prestiti illeciti dalle banche turche”.

Pur sospendendo il giudizio sulla veridicità di tutto questo, la tentazione di approfittare dell’opportunità offerta dal petrolio ceduto dall’Isis a basso presso (si parla di 20 dollari al barile, meno della metà del prezzo di mercato), da far fluire attraverso la Turchia fino a nascondersi dietro i molto maggiori volumi di quello curdo sottratto al governo centrale di Bagdad nonostante gli accordi intercorsi tra questo e il governo regionale del Kurdistan, potrebbe essere stata pressoché irresistibile per l’ambizioso clan Erdogan. Tanto più chesecondo altre fonti, la compagnia che ottenne ancora nel 2011 e sempre dal governo Erdogan la licenza esclusiva per il trasporto e il commercio del petrolio curdo è diretta dal genero dell’attuale autocrate di Ankara, Berat Albayrak, mentre secondo parecchi ufficiali curdi avrebbero confermato che Ahmet Calik, un uomo d’affari molto vicino al clan Erdogan, ha vinto il contratto per il trasporto del petrolio curdo via terra, cioè sui camion, per e attraverso la Turchia.

Misteri della politica e degli affari: mentre nel paese anatolico i curdi vengono discriminati, perseguitati e all’occorrenza massacrati, i legami tra il governo turco e quello regionale curdo in Iraq non sono mai stati tanto saldi.


Fotografie che ritrarrebbero il figlio del presidente turco, Bilal Erdogan, insieme a un leader dell’Isis durante una cena a Istanbul

Da notare anche che, secondo un’altra fonte, mentre Bilal avrebbe acquistato nuove imbarcazioni per decine di milioni di dollari, un altro figlio di Erdogan, Burak, possiede egli stesso una flotta di navi da trasporto che fanno la spola tra Turchia e ilporto israeliano di Ashdod.

Rimandando a quella che appare forse lapiù completa ed equilibrata rappresentazione di questa intricatissima situazione per un approfondimento, rimane da segnalare infine che i media russihanno rilanciato alcune fotografie circolate sui social turchi, che ritrarrebbero Bilal Erdogan a cena in un ristorante di Istanbul con un presunto leader dell’Isis, cui sarebbe imputata la partecipazione a massacri nelle città siriane di Homs e Rojava, suggerendo nuovamente il coinvolgimento diretto del figlio del presidente turco nel mercato nero del petrolio dei tagliagole.

Francesco Meneguzzo
 
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